Autore: Marco Maria Lorusso - Tempo di lettura 6 minuti.

Il cloud italiano sta vivendo una trasformazione che non è solo tecnologica, ma culturale, politica e di modello. È quanto emerso nel talk a porte chiuse organizzato da ChannelCity, seduti intorno a un tavolo senza pubblico, proprio per far emergere voci autentiche del canale: vendor, distributori, system integrator e service provider.
La discussione è partita da un dato chiaro: nel 2024 e nella prima parte del 2025 gli investimenti nel cloud in Italia sono cresciuti oltre il 20%, più che negli anni della pandemia. Eppure è un cloud profondamente diverso da quello di pochi anni fa: più frammentato, più “fisico”, più vicino ai territori, attraversato da nuove esigenze di compliance e sovranità.
La parola chiave, per molti, è tornata ad essere “dove stanno i dati”.
Nel cuore di un simile percorso evolutivo e di una rivoluzione così profonda, come anticipato, in occasione del nuovo appuntamento con #ColazioneConChannelCity abbiamo avuto l’onore di confrontarci e avere intorno al tavolo cinque aottori complementari della catena del valore per cinque manager di eccellenza e profonda conoscenza del mercato come: Roberto Candida Sales Manager di Aruba Business, Fabrizio Agostinelli IT Specialist di HKStyle, Dario Massa Italy Head of Cloud Business at Ingram Micro, Sergio Ajani Services & Solutions Design Director di Innovaway, Stefano Ferro, General Manager di Neen (Vem Sistemi). Il risultato è un confronto prezioso, denso di spunti e indicazioni preziose per affrontare una fase di mercato che non ha precedenti per impatto e velocità di esecuzione delle novità che scatena…
Il primo tema sul tavolo è quello che oggi più di tutti sta ridisegnando i modelli cloud: la territorialità del dato.
Roberto Candida, Sales Manager di Aruba Business, lo vede chiaramente osservando migliaia di partner sul territorio.
«L’argomento ormai arriva sempre di più sul tavolo, in ogni progetto di migrazione. Che si parli di spostamento dall’on-premise al cloud, oppure dagli hyperscaler verso provider italiani, la questione della sovranità del dato c’è sempre. E i grandi analisti confermano che nei prossimi anni ci saranno movimenti di workload a doppia cifra spinti da questa esigenza.»
Candida chiarisce anche il significato, spesso frainteso, del termine “repatriation”:
«Repatriation vuol dire riallocare i dati, riavvicinarli. Può voler dire passare da un public cloud a un private, cambiare provider… in alcuni casi persino tornare on-premise. Ma il punto vero è la sovranità del dato: sapere che la giurisdizione che può toccare i miei dati è solo quella europea. Per Aruba, questo è by design.»
L’accordo tra Aruba e Microsoft per erogare Azure Local in modalità disconnected, interamente su data center italiani, è uno dei segnali più evidenti di questo cambio di paradigma, che coinvolge anche gli hyperscaler.
La territorialità però non basta: serve un modello che unisca prossimità del dato e flessibilità del cloud pubblico.
Lo ricorda Stefano Ferro, direttore generale di Neen, parte del gruppo VEM Sistemi.
«Il modello che vediamo emergere è un ibrido consapevole. I dati restano locali, territoriali, coerenti con le norme sulla sovranità. L’elaborazione invece può sfruttare il public cloud quando serve potenza, scalabilità, capacità di assorbire picchi.»
Per Ferro la ricetta si regge su tre pilastri: dato locale, calcolo in public cloud, platform engineering come collante.
«Attraverso un’unica piattaforma di accesso, logging, controllo dei costi e delle performance, si può governare tutto. È così che si evitano lock-in, si abbassano i costi e si mantiene la libertà di evolvere. La reversibilità è un punto decisivo per le imprese.»
Ma se la territorialità è un tema caldo, c’è un’altra parola che sta condizionando le imprese italiane: costi.
Sergio Ajani, responsabile prevendita e offerta di Innovaway, lo vede ogni giorno sui clienti medio-grandi:
«Le aziende si appoggiano a 6 o 7 provider cloud contemporaneamente. Il problema non è solo quanti, ma cosa ci fanno. E soprattutto: chi controlla tutti quei costi?»
Ajani distingue tra due livelli critici:
IaaS e workload infrastrutturali, dove gli strumenti di controllo esistono, ma vanno usati con competenza.
Shadow IT in versione cloud, ovvero dipartimenti che acquistano software e servizi SaaS con la carta aziendale, senza governance.
«È pieno di licenze comprate in blocco e mai usate. Dalle piattaforme di CRM enterprise ai tool ITSM. Il cloud diventa costoso quando lo si gestisce come un data center tradizionale. È uno dei motivi per cui alcune aziende valutano la repatriation.»
L’interlocutore, sempre più spesso, non è solo il CIO ma anche il CFO.
«Quando porti numeri e analisi serie, inizi a parlare con chi gestisce i budget. Perché il cloud può essere sostenibile… ma va governato.»
Fabrizio Agostinelli, IT Specialist di HKStyle, system integrator con sede a Bergamo e presenza anche in Svizzera, porta un punto di vista interessante: quello dei clienti svizzeri, molto più esigenti sulla localizzazione del dato rispetto a quelli italiani.
«In Svizzera la prima domanda è: dov’è il dato? Tanto che abbiamo dovuto cambiare logo e togliere la parola “Italia” dal brand. Per loro conta anche questo.»
Sul mercato italiano, invece, il livello di consapevolezza è più sfumato:
«Le aziende piccole non si pongono troppo il problema, anche se usano data center nostri o italiani. Le medie e grandi invece sì, e con l’arrivo della NIS2 e della pressione normativa la sensibilità sta crescendo.»
HKStyle utilizza il private cloud di Aruba e, negli ultimi anni, ha visto crescere rapidamente la domanda:
«Abbiamo costruito il nostro cloud quasi per gioco, oggi gestiamo più di 300 macchine su un cluster da sette nodi. Ci chiedono sempre più spesso soluzioni private e garantite.»
Dario Massa, cloud manager di Ingram Micro, porta la visione del distributore globale che lavora quotidianamente con gli hyperscaler:
«Il cloud oggi è molto più fisico, più territoriale, più regolato di prima. E noi dobbiamo aiutare i partner a gestire questa complessità, soprattutto nel dialogo tra governance dei dati, AI e modelli di delivery multi-cloud.»
Secondo Massa il ruolo del distributore non è solo tecnologico:
«Dobbiamo essere un facilitatore di valore. Lo siamo per i partner ma anche per gli hyperscaler, che si aspettano da noi una capacità di orchestrare progetti AI sempre più data-driven e sempre più vincolati da normative.»
Il quadro che emerge è quello di un cloud italiano in fase di ricomposizione, trasformazione, riposizionamento.
Aumentano gli investimenti, ma anche le domande. Cresce l’uso del multi-cloud, ma insieme cresce la fatica di governarlo. Si pretende più sovranità, ma senza rinunciare alla potenza del public cloud.
La sensazione è chiara: il cloud del 2025 non è più un luogo astratto, ma un’infrastruttura fisica, geografica, regolata, che richiede competenze nuove e un canale capace di interpretarla.
Come ha chiosato uno degli speaker, sintetizzando:
«Il cloud non è la soluzione a tutto. È un percorso. E va accompagnato, governato e compreso, non subìto»